LA VOCE UMANA
di
Jean Cocteau

15 / 17 febbraio 2010, Abarico Teatro – Roma
30 settembre – 3 ottobre 2010, Abarico Teatro – Roma
10 aprile 2011, Teatro Aurelio – Roma

Nel febbraio del 1930 Jean Cocteau presentò alla Comédie Française una pièce sconvolgente per la sua originalità. Si trattava di un monologo, o meglio un dialogo di cui era possibile ascoltare solo una parte, perché l’altra passava attraverso il ricevitore di un telefono. A ottant’anni esatti dalla prima rappresentazione pubblica, “La voce umana” conserva intatta la sua capacità di coinvolgere e sconvolgere, mettendo in scena il dialogo con un’assenza. Per il suo autore “La Voce Umana” era un esercizio, una scommessa. Se l’ha vinta, se l’esercizio ha tenuto, ha conquistato, affascinato tante interpreti, è perché esso rappresenta un’occasione inestimabile: quella di una comunicazione con la vita stessa. Un atto unico dissanguante, incentrato sul dolore e sulla solitudine. Un atto che utilizza il telefono – forma di comunicazione per eccellenza – come mezzo per l’incomunicabilità, la menzogna, la chiusura, e la voce umana come uno strumento meraviglioso e sensibilissimo, capace di restituire tutti gli affanni dell’animo. Cocteau, nello scrivere “La voce umana”, ha composto la partitura che la maggior parte degli esseri umani incontra sul proprio cammino, e che tutti decifrano con lentezza e sofferenza, in solitudine.
Rosario Tronnolone

ne hanno scritto…



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Martedì 12 ottobre 2010

A ROMA

“LA VOCE UMANA”

di MARIA ANTONIETTA FONTANA

Con la rappresentazione di domenica 3 ottobre si è conclusa una breve serie di repliche che hanno riportato a Roma quello che è – dalla sua prima – uno dei banchi di prova più difficili per un’attrice: “La voce umana”, di Jean Cocteau. Questa rappresentazione è stata realizzata con la regia di Rosario Tronnolone, mentre interprete di assoluto valore è stata Miriam Spera.
Cocteau scrisse e fece realizzare per la prima volta quest’atto unico – nel febbraio 1930. Quest’opera, originalissima all’epoca, non dimostra i suoi ottant’anni: si tratta di un capolavoro assoluto, senza tempo. Se, infatti, è vero che la ingombrante presenza in scena del telefono (muto, a parte gli squilli che segnalano le varie riprese di una telefonata che scorre per tutta la durata dello spettacolo, interrotta da cadute di linea e interferenze varie), dà una dimensione temporale al testo, è vero anche che il tema attorno al quale si dipana l’opera è davvero senza tempo: la fine di un amore, ed il trionfo dell’incomunicabilità.
Conoscendo il percorso incredibilmente complesso della poliedrica personalità di Cocteau, ed i suoi stretti legami con tutte le arti – fra cui la musica- colpisce come l’intera pièce si svolga nel silenzio più assordante: non c’è ombra di musica. A sottolineare come il suono della voce resti unica realtà, senza alternativa né interlocutore.
La rappresentazione si apre con la vista di spalle di una donna sdraiata sul fondo della scena, talmente immobile in un’oscurità rotta solo da un cono di luce, ed avvolta dal più surreale silenzio, che lo spettatore ignaro può ragionevolmente chiedersi se sia viva o morta. Questo giocare con la vita e con la morte ritorna più volte nei tre quarti d’ora della telefonata; e non solo quando la protagonista, esplicitamente, si riferisce al suo tentativo di suicidio della notte precedente. Tutto l’atto pare un sottile amoreggiare con la morte, accarezzata, suggerita, ad esempio, quando la protagonista diventa tutt’uno col telefono attorcigliando il filo magico che porta la voce dell’amato attorno al proprio collo.

Cos’è del resto il telefono in questa pièce? Mezzo di comunicazione e suo contrario: da un lato consente alla protagonista di parlare ancora con l’uomo che l’ha abbandonata per una donna presumibilmente più giovane e bella (lo si arguisce quando la protagonista racconta di averne visto le foto su una​ rivista di moda), ma al tempo stesso sancisce la fine di ogni comunicazione possibile perché consente di interrompere il flusso del discorso semplicememnte riagganciando la cornetta, e perché sancisce la distanza fisica (e spirituale) che divide i due interlocutori da una parte e dall’altra del filo.
Ogni volta che si assiste a questo spettacolo, la grande sensibilità di Cocteau continua a sorprenderci. Perché nella donna senza nome che non sa arrendersi alla fine di un amore c’è ciascuno di noi, con le proprie ossessioni, le proprie paure, la propria fobia della solitudine, il proprio rapporto di odio/amore con la morte, la propria disperazione, la necessità di travestire con bugie le proprie debolezze…

Miriam Spera ha saputo toccare tutte queste corde, spiegando con la propria voce (strumento che padroneggia benissimo – del resto la sua esperienza di doppiatrice testimonia l’importanza che per lei essa abbia) un’ampia gamma di colori, giocando con gli spettatori attraverso il suo uso intelligente e sapiente, accompagnandosi con gesti misurati ma non per questo meno efficaci o disperati. E quando le luci si spengono in sala, sul quinto supplichevole “Ti amo”, non è un caso che la Spera sia appoggiata allo specchio posto sul fondo del palcoscenico ( anzi, direi, “spalmata” sullo specchio): non siamo qui di fronte ad una nuova Alice che vi passa attraverso scoprendo una nuova dimensione, ma di fronte al fatto che il grido “ti amo” non oltrepassa chi l’ha pronunciato. L’unica dimensione possibile al grido d’amore, è che l’amore può avere per oggetto solo se stessi.
E parlando di specchi, ci viene in mente quel personaggio che gioca con lo specchio e vi vede riflesso il proprio autore, al centro di un altro lavoro teatrale: quel “Don Perlimplino e Belisa nel giardino” di Garcia Lorca nella rivisitazione propostaci dalla Rosati Hansen, che il Teatro Abarico ci proporrà questa settimana, da giovedì 7 a domenica 10 ottobre: un’altra splendida avventura teatrale da non perdere.
Esplicitamente, si riferisce al suo tentativo di suicidio della notte precedente. Tutto l’atto pare un sottile amoreggiare con la morte, accarezzata, suggerita, ad esempio, quando la protagonista diventa tutt’uno col telefono attorcigliando il filo magico che porta la voce dell’amato attorno al proprio collo.
Cos’è del resto il telefono in questa pièce? Mezzo di comunicazione e suo contrario: da un lato consente alla protagonista di parlare ancora con l’uomo che l’ha abbandonata per una donna presumibilmente più giovane e bella (lo si arguisce quando la protagonista racconta di averne visto le foto su una rivista di moda), ma al tempo stesso sancisce la fine di ogni comunicazione possibile perché consente di interrompere il flusso del discorso semplicemente riagganciando la cornetta, e perché sancisce la distanza fisica (e spirituale) che divide i due interlocutori da una

LA VOCE UMANA

Autore: Jean Cocteau
Regia: Rosario Tronnolone
Compagnia: Come in Uno Specchio
Cast: Miriam Spera

Recensione di Alessandro Paesano

Una voce molto umana

Una voce umana briosa quella in scena all’Abarico. Sì, briosa, avete letto bene, perchè il regista Rosario Tronnolone ha pensato di impostare la pièce rinunciando all’accademia che ha sempre visto recitare questo monologo con i toni drammatici della donna sofferente (nelle note di regia il suo stesso autore raccomanda di recitarla come se la donna protagonista stia sanguinando) e dare spazio alla estrema sensibilità e duttilità della sua interprete, una Miriam Spera davvero in gran forma che sa esprimere i sentimenti voluti da Cocteau riuscendo a non calcare sul lato drammatico senza per questo essere meno convincente o meno Umana. Miriam Spera ha la capacità rara di saper rendere un’emozione semplicemente provandola restituendone con la voce non già l’intenzione o il sentimento ma semplicemente il riverbero emotivo che quella ha sulla parola, sul dialogo, sul colloquio.
Il telefono, vero oggetto feticcio della pièce, nonostante sia il mezzo con cui avviene il monolgo-dialogo è qui uno strumento quasi inutile tant’è che in certi momenti, inaspettatamente (e spiazzando positivamente lo spettatore) Miriam si concede dei brevi attimi di recitazione senza portarsi il telefono appresso ma recitando nuda.
Bella la scena d’apertura con l’attrice esanime sul pavimento in fondo alla scena (e non sul letto come vuole Cocteau) mentre una luce proveniente da un altro ambiente di quinta illumina il palcoscenico di taglio, gettando una luce sagomata che si ingigantisce verso la platea, mentre un’altra luce illumina il telefono, posto di proscenio. Un tempo lunghissimo nel quale non accade nulla (proprio come voleva Cocteau insinuando nello spettatore il dubbio che la donna fosse morta) che fa precipitare lo spettatore in una cupa atmosfera metafisica dove il tempo sembra fermo, come in un quadro di De Chirico.
Il testo viene rispettato pienamente con qualche impercettibile cambiamento lessicale rispetto l’edizione pubblicata da Einaudi (una differente traduzione?) con una sola aggiunta che non siamo riusciti a trovare nell’originale, l’accenno al matrimonio dell’uomo cui la donna parla (e ama…) per esplicitare il senso di abbandono, di solitudine, di tradimento.
Miriam Spera è una donna tradita, sconfitta che accetta anche il ruolo di amante (ecco forse il perchè dell’accenno al matrimonio) pur di rimanere con l’uomo che ama senza il quale non può vivere. Una messa in scena impeccabile, per una interpretazione meno canonicamente accesa ma non per questo meno intensa.
All’Abarico fino a domani.

Visto il 15/02/2010 a Roma (RM) Teatro: Abarico